«Il progetto Case è stato un altro terremoto» si legge verso la fine del resoconto dell’inchiesta del dipartimento ricerche dello Spi Cgil pubblicata dalla casa editrice LiberEtà col titolo L’Aquila, gli anziani, la città. La ricerca è stata curata dal docente di sociologia del lavoro dell’università La Sapienza di Roma, Enrico Pugliese (e realizzata assieme a Stefano Boffo, Francesco Pirone ed Enrico Rebeggiani). Mentre “Case”, che è l’acronimo di “complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili”, è il progetto di ricostruzione portato avanti dal governo Berlusconi, con l’edificazione di diciannove new town (come l’ex premier pomposamente le chiamava) fuori dalla città.
Un progetto costosissimo, che ha prodotto l’abbandono dell’Aquila e la disgregazione del tessuto sociale. Dimenticare quella notte è impossibile: 308 morti, 1.600 feriti, decine di migliaia i senzatetto, il centro storico quasi tutto crollato. Ma è anche utile, per non ripetere l’errore commesso. Al contrario di quanto accaduto dopo i terremoti del secondo dopoguerra, dove si è ricostruito “com’era” e “dov’era”, stavolta si è data la precedenza alle nuove costruzioni, con una gestione rigorosamente centralizzata (anche dei fondi e delle donazioni private), affidata al capo della protezione civile, Guido Bertolaso. Centro della ricostruzione è stato appunto il progetto Case: 19 lottizzazioni per complessivi 4.449 alloggi, nate con l’obiettivo di passare subito “dalla tenda alla casa” (così recitava lo slogan), «ubicate – come spiega nel libro l’urbanista Vezio De Lucia – a caso, in zona agricola, e costate circa il triplo delle tradizionali sistemazioni provvisorie». Prima del terremoto L’Aquila era una città arcipelago, con un centro storico vivo e abitato (vi risiedeva il 20 per cento della popolazione) e circa sessanta frazioni.
Oggi il centro storico è ancora vuoto e in parte inaccessibile, mentre la città è divenuta una sterminata periferia, dove ferve una ricostruzione incontrollata e senza un’idea guida. A soffrirne più degli altri sono gli anziani, e di questo si occupa la ricerca. «Prima – spiega la segretaria generale dello Spi dell’Aquila, Loretta Del Papa – le persone anziane vivevano nel centro città, si muovevano a piedi e non avevano esigenze che le spingevano con frequenza fuori dal centro; oggi, confinati in “quartieri dormitorio”, hanno perso la propria autonomia, e sono costretti ad affidarsi per ogni necessità a familiari che abitano anche a vari chilometri di distanza».
Perché nelle 185 palazzine del progetto Case non c’è niente. E l’indagine di campo, base della ricerca, lo mostra chiaramente. Ai cittadini dell’Aquila sono stati forniti “contenitori”, ma nulla più. Il trasporto pubblico è insufficiente e inadeguato, mancano le strutture di prima necessità (dalle farmacie agli uffici postali), i negozi e i laboratori artigianali, i luoghi di svago e d’incontro (come bar, chiese, centri per anziani). E gli anziani è come se fossero “ricoverati” in una residenza priva di qualsiasi tipo di servizio, che li induce in condizioni di disabilità e di dipendenza. Non si vive di sole quattro mura: sono la socialità, gli spazi collettivi, le relazioni di vicinato a vincere la solitudine.
Questo ci dice la ricerca, ma a questo ovviamente Berlusconi non ha pensato. La parola chiave: anziani. Prima del terremoto circa il 20 per cento della popolazione aveva più di 65 anni. Nella fase dell’emergenza nelle tendopoli gli anziani erano il 30 per cento (su 26.800 sfollati) e molti avevano più di 75 anni. Hanno subìto un’esperienza di perdita di senso, di crisi delle relazioni familiari e amicali, di scomparsa dei punti di riferimento e della sicurezza che dà sentirsi parte di una comunità. Spi, Cgil e Auser attraverso il lavoro volontario, soprattutto la straordinaria mobilitazione delle donne nei comitati, hanno fronteggiato una situazione mai vista prima: non era mai successo che le persone, a cominciare dagli anziani, fossero lasciate per così tanto tempo esautorate da qualunque attività o decisione.