La legge di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020, approvata dal Senato il 23 dicembre 2017, presenta poche novità in materia di previdenza rispetto a quanto indicato nel primo testo di inizio dicembre e nella nota finale di sintesi del 21 novembre consegnata dal governo ai sindacati. Il giudizio della Cgil sulle proposte formulate rimane – in linea con quanto già espresso al governo negli ultimi incontri tenuti – negativo, vista la distanza notevole non solamente dalle richieste sindacali, ma anche da quanto previsto per la “seconda fase” del verbale sottoscritto tra governo e sindacati il 28 settembre 2016.
Gli impegni assunti dall’esecutivo, con la sottoscrizione del verbale di sintesi, avrebbero dovuto far rientrare nella proposta prima e nella legge di bilancio poi misure e interventi su alcuni temi per noi centrali, come giovani, donne, lavoro di cura e la revisione totale del meccanismo di adeguamento del requisito pensionistico legato all’attesa di vita. Le proposte del governo legate alla previdenza risultano invece del tutto insoddisfacenti, in linea con le risorse che hanno deciso di investire su questo tema, addirittura di molto inferiori rispetto a quelle risparmiate per il mancato utilizzo di Ape sociale e precoci nel 2017.
Lo avevamo ribadito con forza all’esecutivo, che durante gli ultimi incontri non aveva mai formalizzato gli impegni precisi di spesa sui singoli capitoli. I 300 milioni imputati genericamente sugli interventi si sono rivelati falsi e non congruenti con quanto indicato in legge di bilancio. Una nostra analisi di dicembre aveva correttamente dimostrato che il risparmio ottenuto nel 2017 per un limitato utilizzo di Ape sociale e precoci, ammonterebbe a 504 milioni di euro, cifra di molto superiore alle risorse investite su tutti gli interventi di natura previdenziale. E infatti, nel triennio, considerando tutte le misure introdotte dal governo per Ape sociale e precoci, si prevede un investimento totale di 189,6 milioni di euro.
I temi oggetto di confronto da far rientrare nella “fase due” sarebbero dovuti essere: 1) pensione di garanzia nel contributivo e per i giovani; 2) adeguamento del requisito pensionistico all’attesa di vita; 3) valorizzazione del lavoro di cura e delle donne; 4) flessibilità in uscita; 5) rilancio della previdenza complementare; 6) separazione tra assistenza e previdenza, rivalutazione delle pensioni. Molto poco di questi temi è rintracciabile nella legge di bilancio, motivo per cui la vertenza sulle pensioni continua nella direzione indicata nella piattaforma unitaria del 2015, che rimane il faro dell’azione sindacale e delle nostre proposte.
La legge Monti-Fornero sulle pensioni è stata un’enorme operazione di cassa, che ha prelevato nel periodo 2012-2020 circa 80 miliardi di euro. Una manovra che ha introdotto elementi di eccesiva rigidità, che ha spostato per tutti il traguardo pensionistico ben oltre i livelli degli altri Paesi europei, con ricadute importanti, anche di natura sociale. In questo momento, c’è bisogno di risposte meno parziali e provvisorie, ma che riguardino l’intero sistema, creando flessibilità in uscita, valorizzando il lavoro di cura e delle donne, garantendo ai giovani e a tutti coloro che avranno una pensione calcolata con il sistema contributivo, una pensione di garanzia che ridia fiducia e credibilità al sistema pubblico.
L’introduzione di flessibilità di accesso al pensionamento a nostro avviso è urgente e sostenibile, a maggior ragione se osserviamo cosa succede in Europa, dove la Germania ha un’età di uscita a 65 anni e 5 mesi (come in Spagna) e salirà a 67 solo nel 2029. In Francia l’asticella quest’anno è a 65 anni e 3 mesi e molte categorie hanno diritto a un anticipo: i lavoratori precoci possono andare in pensione tra i 57 e i 60 anni, chi ha fatto lavori gravosi a partire dai 60, chi ha un handicap tra i 55 e i 59. Il tema dell’adeguamento del requisito pensionistico legato all’attesa di vita è stato sicuramente l’elemento più delicato del confronto sindacale, su cui era necessario fare molto di più, rivedendo totalmente un meccanismo folle, che rischia di allontanare per tutti il traguardo pensionistico.
Aver previsto un esonero dell’adeguamento dei requisiti pensionistici all’attesa di vita solo per le 15 categorie (alle 11 indicate nella legge di bilancio scorsa ne sono state aggiunte quattro: siderurgici di prima e seconda fusione e lavoratori del vetro addetti ai lavori ad alte temperature, operai dell’agricoltura, della zootecnica e della pesca, marittimi imbarcati a bordo e personale viaggiante dei trasporti marini in acque interne, pescatori della pesca costiera in acque interne, in alto mare, dipendenti o soci di cooperative) e solo per lo scatto dei 5 mesi previsto per il 2019, non ha assolutamente risposto al problema, visto che secondo i nostri calcoli non saranno più di 8 mila l’anno le persone interessate.
Nelle nostre richieste al governo, durante il confronto sulla “fase due” – oltre alla richiesta del blocco dell’adeguamento dei requisiti di accesso alla pensione previsto con decorrenza 1° gennaio 2019 – avevamo chiesto di avviare un “negoziato” per la revisione dell’attuale meccanismo di adeguamento dei requisiti all’aspettativa di vita per quanto concerne la pensione di vecchiaia, la pensione anticipata e i coefficienti di trasformazione, proponendo di costituire un gruppo di lavoro, composto dai rappresentanti dei ministeri e degli istituti competenti e da Cgil, Cisl e Uil, al fine di individuare i criteri in grado di poter misurare il diverso impatto delle attività lavorative sulla speranza di vita.
Avevamo quindi la necessità di rivedere il calcolo dei coefficienti di trasformazione, visto che quando il valore dell’attesa di vita cresce, abbiamo un effetto sia sull’aumento del traguardo pensionistico, sia sulla modifica dei coefficienti che determinano la misura della pensione (per la quota contributiva). Le commissioni tecniche proposte, sia sull’attesa di vita che sulla separazione tra assistenza e previdenza, potranno fornire dati ed elaborazioni preziose che però non garantiscono le scelte politiche urgenti e necessarie di cui il nostro sistema avrebbe bisogno.
Considerando i numeri del monitoraggio effettuato dall’Inps sulle domande di Ape sociale e precoci, è evidente che aver mantenuto anche per le donne un requisito contributivo così alto (30 anni o 36 anni di contribuzione) ha prodotto un numero di domande molto basso. C’era quindi bisogno di un maggior riconoscimento o abbassamento del requisito contributivo richiesto per tutte le donne, che anche con il riconoscimento di un anno di sconto contributivo per ogni figlio fino a un massimo di due anni, non farà cambiare di molto il risultato, che secondo le nostre stime non interesserà più di un migliaio di donne l’anno.
Alcuni aspetti che abbiamo colto positivamente nella legge di bilancio (possibilità di perfezionamento del requisito contributivo previsto per i gravosi anche con i 7 anni di lavoro negli ultimi 10 anni, oppure aver eliminato il vincolo del 17 per mille per il riconoscimento del lavoro gravoso) sono anche frutto del nostro lavoro, innanzitutto per la mobilitazione messa in campo, ma anche per il confronto e la pressione svolta verso tutti i gruppi parlamentari nel corso dell’iter di approvazione della legge di bilancio.